12 Dicembre 1980
A Roma un commando delle Br capeggiato da Moretti sequestra Giovanni D’Urso.
Giovanni D’Urso è il direttore della Divisione generale degli istituti di prevenzione e pena del ministero della Giustizia (la struttura che si occupa della destinazione carceraria dei detenuti).
Il brigatista Roberto Buzzati ricostruisce così il sequestro:
«Mi hanno raccontato i fatti in questi termini: gli autori materiali hanno atteso D’Urso vicino a casa sua, in una strada di cui non ricordo il nome, che sfocia nell’Olimpica e dove D’Urso era solito posteggiare la propria auto. Sulla destra di tale strada vi era fermo un furgone con alla guida Ennio Di Rocco (nome di battaglia “Riccardo”), alla sua destra Senzani, dietro Moretti, “Rolando” e “Daniele”. Più indietro, sulla sinistra della strada, c’era una macchina con funzione di copertura con alla guida una persona che non so, e alla sua destra Stefano Petrella. Quando D’Urso è arrivato con la sua auto e l’ha parcheggiata, avvicinandosi quindi a piedi verso la sua abitazione come era solito fare, sono scesi dal furgone Moretti, Rolando e Daniele; questi ultimi due hanno materialmente “catturato” D’Urso e lo hanno portato dentro il furgone, dove il D’Urso venne messo all’interno di una cassa di legno… L’azione è stata diretta da Moretti.
Durante l’operazione, Marina Petrella stava nell’appartamento in attesa. Io stavo in attesa a una falsa uscita del raccordo vicino a San Basilio a bordo dell’auto di mia madre con funzioni di staffetta. Moretti aveva predisposto un ingresso nel raccordo, dalle parti dell’Aurelia, sulla via di fuga preventivata dalla casa di D’Urso. Mentre sto in attesa vedo arrivare Moretti, Stefano Petrella e Senzani a bordo di una 128 familiare verde, auto diversa da quella che aveva svolto funzioni di copertura durante il sequestro.
[…]In effetti non incontrammo alcun ostacolo, e arrivammo tranquillamente a via della Stazione di Tor Sapienza. Moretti e Senzani portarono su la cassa con D’Urso, mentre Stefano Petrella si allontanava per abbandonare l’auto lontano da casa e per fare la telefonata di rivendicazione… Ricordo anche che era stato dimenticato un mitra, e che Moretti e Senzani si accusavano reciprocamente della dimenticanza. Poi, la mattina dopo, arrivò Stefano Petrella il quale disse che aveva visto il mitra sul sedile posteriore e che l’aveva preso lui.
Arrivammo a via Stazione di Tor Sapienza verso le ore 22.30. A casa trovammo Virginia in attesa. D’Urso venne tolto dalla cassa, perquisito, svestito; gli fu data una tuta da ginnastica, fu posto nella “prigione” e gli fu legato un polso con una catena abbastanza lunga, che gli consentisse di muoversi, [fissata] alla brandina. D’Urso era già da prima bendato, mentre al momento in cui lo tolsero dalla cassa spensero prima tutte le luci. Moretti e Senzani indossarono due specie di camiciotti, tipo camici, uno bianco e l’altro blu, che li rendevano informi perché molto grandi. Queste erano tutte idee di Moretti, che le aveva già sperimentate prima in casi analoghi. Essi, inoltre, si misero due passamontagna. Intanto io e Virginia stavamo più che altro in cucina, anche perché mancava lo spazio.
Un volta legato D’Urso alla branda, Moretti e Senzani per prima cosa gli chiesero come si sentisse e di che cosa avesse bisogno, in quanto – come ho detto – il magistrato era stato picchiato e aveva, credo, una escoriazione alla mano. D’Urso rispose che stava abbastanza bene ma che il viaggio era stato disagevole. Al che Moretti rispose che quelli erano i mezzi di cui disponevano, e per fuorviare D’Urso aggiunse che “per arrivare in quel paese c’erano parecchie strade di terra”. Io sentivo da dietro la tenda. Moretti fece subito a D’Urso un discorso politico-ideologico: gli spiegò che eravamo delle Br, che non eravamo torturatori, che eravamo contro la prigione, che se lo tenevamo lì era solo per il suo ruolo in relazione ai nostri obiettivi politici, che lo avremmo trattenuto per non molto tempo, che lo avremmo trattato con umanità ma che il trattamento dipendeva dal suo comportamento (se si fosse messo a urlare avremmo dovuto imbavagliarlo), che l’esito della vicenda era anche legato alla sua collaborazione. D’Urso rispose che non aveva intenzione di fare l’eroe e che quello che sapeva lo avrebbe senz’altro detto».
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