27 Agosto 2006

Renato Biagetti, giovane attivista del centro sociale Acrobax di Roma, viene ucciso sul litorale romano di Focene.

Renato è con Laura, la sua ragazza, e con il suo migliore amico, Paolo. Ha 26 anni ed è appena uscito da un concerto reggae a Focene, una frazione di Fiumicino. La musica è la sua passione, si è da poco laureato come ingegnere del suono. Frequenta ed è attivo nel centro sociale Acrobax di Roma, il laboratorio occupato che una volta era il Cinodromo di Ponte Marconi.

Sono le cinque di Domenica mattina, il concerto è appena finito. Laura va a prendere la macchina, mentre gli altri due la aspettano. Una macchina grigia si avvicina. A bordo ci sono due ragazzi, uno di 17 anni e l’altro di 19. Comincia un diverbio, dalla macchina uno dei due scende: è Vittorio Emiliani, figlio di un carabiniere. Ha in mano un coltello, si avventa su Renato: lo accoltella 8 volte: una alla coscia e le altre al petto, di cui due al cuore.

Qualcuno parla di una “rissa tra balordi”. Qualcun altro preferisce chiamarla aggressione fascista.


27 Agosto 1979

Fabrizio De André e Dori Ghezzi vengono sequestrati in Sardegna.

Quel giorno la tenuta dell’Agnana di De André è un viavai di persone. Ci sono i genitori di Dori Ghezzi, la sorella e il cognato con i figli ed altri amici. Alla sera, uno dopo l’altro lasciano la casa. I genitori di Dori portano via anche la piccola Luvi, figlia della coppia, per farle trascorrere qualche giornata al mare nella loro casa di Porto San Paolo. Attorno alle 20, così, Fabrizio e Dori rimangono soli in casa.

Dopo cena, attorno alle 23, tre uomini entrano in casa.

“Fummo presi e fatti scendere al piano terra dopo averci fatto calzare scarpe chiuse e portato con noi alcune paia di calze. Ci fecero uscire dal retro della casa e fatti sedere sulla nostra macchina, una Citroen Diane 6, targata MI. Prima di chiudere la porta chiesero a Fabrizio dove fosse l’interruttore per spegnere le luci del giardino”.

I rapitori prima chiedono due miliardi di lire al padre di Dr André per liberare la coppia, che non dispone di tutto quel denaro. Dopo mesi di ricerche infruttuose le trattative con i rapitori per il riscatto arrivano a un accordo: 550 milioni di lire.

Alle 23 del 20 dicembre, a pochi chilometri da Alà dei Sardi, viene rilasciata Dori Ghezzi. Alle 21 del 21 dicembre, invece, viene liberato Fabrizio, nei pressi di Buddusò. Sono passati 117 giorni dal sequestro.

Racconta Dori:

“Il 20 dicembre il mio guardiano mi disse che avevano deciso di liberarci. Verso le 15, dopo aver mangiato pane e formaggio, ci incamminammo a piedi percorrendo un tratto di terreno molto scosceso, col viso incappucciato. Mi accompagnano due banditi, di cui il mio guardiano e un altro che non avevamo mai sentito, né visto. Camminammo per almeno 3 ore. Passammo vicino ad una cascata d’acqua, poi attraversammo un fiume. Sentivo l’abbaiare di cani, presumo vicino ad un casolare o forse un ovile; lo intuisco da alcuni rumori. Aspettammo tante, tantissime ore vicino ad una strada nascosti tra i cespugli fino a notte inoltrata. Sono circa le 23 quando finalmente arriva una macchina, una Citroen Pallas, che ci carica a bordo. Io ero sempre con le mani legate e mascherata, sorvegliata dai due banditi. Dopo un po’ di strada, forse mezz’ora, mi fecero scendere lasciandomi sul ciglio della strada in attesa che gli emissari mi venissero a prendere”.

Fabrizio, nel frattempo, è rimasto nella tenda col suo carceriere. L’indomani, dopo aver ripulito il nascondiglio, si allontanano anche loro.

“Dopo alcune ore di marcia in compagnia del mio guardiano raggiungemmo una strada asfaltata. Mi disse di aspettare che sarebbero venuti a prendermi per accompagnarmi a casa. Dopo qualche ora di attesa mi raggiunge l’emissario, ora apprendo si trattava di Giulio Carta, il quale mi fa salire sui sedili posteriori dell’auto. Mi porterà fino all’abitazione di Portobello, dove mi attendono i miei familiari”.

La vicenda del sequestro iniziato il 27 Agosto ispirerà la produzione artistica successiva del cantautore genovese.

Al sequestro De André dedica il brano Hotel Supramonte, incluso nell’album L’indiano pubblicato nel 1981.


27 Agosto 1950

A Torino si suicida lo scrittore e intellettuale Cesare Pavese.

Nell’estate 1950 trascorre alcuni giorni a Bocca di Magra, vicino a Sarzana, in Liguria, meta estiva di molti intellettuali, dove conosce un’allora diciottenne Romilda Bollati, sorella dell’editore Giulio Bollati, appartenente alla nobile famiglia dei Bollati di Saint-Pierre (e futura moglie prima dell’imprenditore Attilio Turati poi del ministro Antonio Bisaglia). I due ebbero una breve storia d’amore, come testimoniano i manoscritti dello scrittore, che la chiamava con lo pseudonimo di “Pierina”.

Tuttavia, nemmeno questo nuovo sentimento riuscì a dissipare la sua depressione; in una lettera dell’agosto 1950, scriveva:

«Posso dirti, amore, che non mi sono mai svegliato con una donna mia al fianco, che chi ho amato non mi ha mai preso sul serio, e che ignoro lo sguardo di riconoscenza che una donna rivolge a un uomo? E ricordarti che, per via del lavoro che ho fatto, ho avuto i nervi sempre tesi, e la fantasia pronta e precisa, e il gusto delle confidenze altrui? E che sono al mondo da quarantadue anni? Non si può bruciare la candela dalle due parti – nel mio caso l’ho bruciata da una parte sola e la cenere sono i libri che ho scritto. Tutto questo te lo dico non per impietosirti – so che cosa vale la pietà, in questi casi – ma per chiarezza, perché tu non creda che quando avevo il broncio lo facessi per sport o per rendermi interessante. Sono ormai di là dalla politica. L’amore è come la grazia di Dio – l’astuzia non serve. Quanto a me, ti voglio bene, Pierina, ti voglio un falò di bene. Chiamiamolo l’ultimo guizzo della candela. Non so se ci vedremo ancora. Io lo vorrei – in fondo non voglio che questo – ma mi chiedo sovente che cosa ti consiglierei se fossi tuo fratello. Purtroppo non lo sono. Amore.»

Il 17 agosto aveva scritto sul diario, pubblicato nel 1952 con il titolo Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950: «Questo il consuntivo dell’anno non finito, che non finirò» e il 18 agosto aveva chiuso il diario scrivendo: «Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più».

In preda a un profondo disagio esistenziale, tormentato dalla recente delusione amorosa con Constance Dowling, alla quale dedicò i versi di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, mise prematuramente fine alla sua vita il 27 agosto del 1950, in una camera dell’albergo Roma di Piazza Carlo Felice a Torino, che aveva occupato il giorno prima. Venne trovato disteso sul letto dopo aver ingerito più di dieci bustine di sonnifero.

Sulla prima pagina dei Dialoghi con Leucò, che si trovava sul tavolino aveva scritto: «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi». All’interno del libro era inserito un foglietto con tre frasi vergate da lui: una citazione dal libro, «L’uomo mortale, Leucò, non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia», una dal proprio diario, «Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti», e «Ho cercato me stesso». Qualche giorno dopo si svolsero i funerali civili, senza commemorazioni religiose poiché suicida e ateo.