2 Luglio 1981
L’ergastolano pluriomicida Salvador Farre Figueras, armato di un lungo coltello rudimentale, aggredisce in carcere Mario Moretti e lo ferisce al braccio e alla mano.
L’aggressione avviene durante l’ora d’aria all’interno del reparto di massima sicurezza del carcere di Cuneo.
Il brigatista Enrico Fenzi, presente all’aggressione, la racconterà così:
«La mattina del 2 luglio, alle nove, sono sceso all’una. Ero uscito dall’isolamento da una ventina di giorni: da sotto terra su al terzo piano. Moretti mi aveva seguito dopo una settimana. Scendevamo le scale, tre per volta. Giù ci perquisivano con il metal-detector prima di farci entrare nel cortile: quella mattina ci toccava il piccolo, chiuso da alte griglie e lamiere di ferro verniciate di blu scuro. L’aria era ancora fresca, e mi sono subito messo ad andare avanti e indietro, chiacchierando con Angelino Morlacchi. Non ho badato agli altri che arrivavano via via: saremmo stati una quindicina, come al solito. Ero vicino all’angolo dell’ingresso quando abbiamo sentito un grido furente, rabbioso, e un rapido tramestìo di corpi. Moretti era a terra, raggomitolato su se stesso, le braccia chiuse in avanti, come quelle dei pugili, e le gambe che scalciavano, in alto. Su di lui incombeva Farre Figueras, che urlava con la faccia congestionata e cercava di aprirsi un varco verso il corpo, tra le gambe e le braccia che lo respingevano. D’istinto mi sono buttato verso di loro, e Farre s’è drizzato di scatto rivoltandosi contro di me. Nella destra, che teneva bassa, all’altezza della vita, aveva un coltello – lungo, appuntito, a forma di trincetto […].
Hanno preso me e Moretti e ci hanno portato di corsa in infermeria… Moretti aveva dei tagli profondi sugli avambracci: abbiamo visto tutti che il pollice sinistro era come morto, gli era stato reciso il tendine. Gli ho detto: “Se mi voleva davvero ammazzare, non sarei qui…”. Il brigadiere [era] d’accordo con me. Moretti no, invece. Mi parlava, mentre lo medicavano: “Sarà, ma anch’io non ero qui se non scansavo il primo colpo… è quello che gli è andato male!” […].
Figueras era grande e grosso, un toro, con due braccia enormi. Il coltello, ricavato da una piatta sbarra di ferro, era spesso e pesante, e aveva una punta affilatissima… Me l’ha fatto vedere il maresciallo, l’aveva sul tavolo, in ufficio, mentre svolgeva la rapida inchiesta di rito.
“Perché ce l’aveva con voi? C’erano già stati scontri, minacce?”.
“No. Non ci eravamo mai neppure rivolti la parola. Non c’era nessun motivo”.
“Ma non vi voleva ammazzare. Uno come lui…”.Il pomeriggio, invece di andare all’aria, ci siamo visti nel refettorio, in quattro o cinque, e abbiamo scritto un breve comunicato: dicevamo che ad armare la mano di Figueras erano stati i carabinieri […].
L’angoscia che leggevo negli occhi di Moretti andava oltre ogni possibile perché. La “cosa” era avvenuta. Questo era l’incredibile. L’inaccettabile. Proprio nel cortile di un carcere speciale, appena arrivato, il capo delle Brigate rosse era stato accoltellato…».
L’accoltellamento di Moretti è inspiegabile, dal momento che aggressore e aggredito non si conoscono, né risulta che abbiano avuto alcun contrasto in carcere. Non si tratta di un tentato omicidio (la mole fisica di Figueras avrebbe agevolmente sopraffatto la modesta corporatura del capo brigatista), bensì di un brutale “avvertimento”. È lo stesso Figueras a vantarsi con altri detenuti di avere voluto solo spaventare Moretti, assicurando che se avesse voluto ucciderlo avrebbe potuto farlo facilmente.
Moretti definirà l’aggressione «qualcosa di più che un avvertimento», aggiungendo: «Non ho capito chi e perché mi volesse ammazzare, chi gli aveva dato questo ordine… È certo che l’ordine è venuto da fuori… La cosa ci colse di sorpresa proprio perché non nasceva dall’interno del carcere». E a proposito di quanto accaduto dopo l’aggressione, ricorderà: «Credo che anche dalla parte dello Stato non fosse tutto chiaro, a un certo punto persino alla Digos persero per un momento la testa, mi buttarono su una camionetta e correndo verso l’ospedale uno mi tenne per tutto il tragitto la pistola puntata alla fronte continuando a gridare: se succede qualcosa tu sei quello che muore per primo. Ma dopo neanche mezz’ora cambiarono idea e mi riportarono di corsa in carcere. Di là mi spedirono a Pisa per l’operazione chirurgica… A Pisa mi hanno curato benissimo».
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