8 Settembre 1974
Renato Curcio e Alberto Franceschini vengono arrestati a Pinerolo.
I carabinieri hanno deciso la cattura di Curcio, tentano soltanto di non scoprire il confidente.
Curcio è puntuale. «Vieni con noi». L’ex-frate risponde che anche lui è in macchina e che deve lasciarla a Torino. «Seguici, lascia l’auto a Torino, dove vuoi, e poi vieni con noi». Appena il brigatista si allontana, per radio Girotto dà il via all’operazione. Il frate si ferma ancora per chiedere quale sia la macchina da seguire. Curcio non è più solo, al fianco ha un giovane, media statura, magro, con gli occhiali, silenzioso: Alberto Franceschini. «Non venirci dietro, ci vediamo a Torino tra un’ora,» ordina Curcio. Si dividono. Girotto continua a trasmettere, imbocca un senso vietato, un vigile lo ferma e lo multa. La 128 blu con i guerriglieri si allontana in direzione di Torino, ma alle porte dell’abitato un passaggio a livello li costringe a fermarsi. Un momento dopo sopraggiungono due macchine. Le portiere si spalancano e uomini armati di mitra e pistole balzano a terra. Curcio, al volante, rimane impassibile, il suo compagno reagisce, cerca di scappare a piedi verso i campi, ma sei mani lo immobilizzano. Inutilmente si divincola, grida, rivolto agli stupiti passanti: «Aiutatemi, è un’aggressione fascista».
La versione dei fatti che racconterà Moretti è la seguente:
«Terminiamo [la riunione di Parma] nel tardo pomeriggio [di sabato 7 settembre]. Io me ne vado per primo, tornando a Milano. Curcio mi dice che resterà a dormire a Parma per andare a Pinerolo la mattina dopo a incontrare Girotto.
Franceschini ripartirà per Roma la sera stessa. Arrivo a Milano e trovo ad aspettarmi Attilio Casaletti, Nanni, che mi fa: guarda, attraverso un giro un po’ lungo è arrivata la notizia che un compagno di Torino ha ricevuto una telefonata anonima in cui si avverte che domenica Curcio verrà arrestato a Pinerolo. Cristo santo, io so che è vero, domani Curcio va a Pinerolo. Ma perché dovrebbe essere arrestato? Che è successo?…
Risalgo in macchina e con Nanni mi precipito a Parma dove Curcio, tre ore prima, mi aveva detto che sarebbe rimasto la notte. Arriviamo un po’ dopo le dieci, non ho le chiavi, non è una base della colonna di Milano, suono il campanello, non funziona. Dobbiamo avvertirlo assolutamente, cerchiamo di farci sentire, ma la casa non ha finestre sul davanti e non possiamo metterci a urlare in piena notte davanti a una base. Nessuno ci sente. Ma non può sfuggirci, dovrà uscire molto presto per andare a Pinerolo, ci mettiamo in macchina davanti al portone e aspettiamo. Dopo qualche tempo ci viene in mente che, se nessuno risponde, è forse perché Curcio ha cambiato idea e se ne è andato a Torino, nella base dove sta con Margherita. Io quella base non saprei trovarla neanche se mi ci portassero davanti, c’ero stato una volta sola per una riunione d’emergenza, ed è abitudine di clandestini non memorizzare quel che può nuocere alla compartimentazione: la sola cosa che non potrai mai dire è quella che non sai…
Rimaniamo a Parma fino all’alba e quando siamo certi che Curcio lì non c’è andiamo sulla strada per Pinerolo, separandoci sui due percorsi che portano a quella cittadina, e ci mettiamo sul bordo della strada sperando che Curcio ci noti mentre passa. Non è un granché, è quasi impossibile che funzioni, ma non possiamo fare altro».
Curcio dirà:
«Negli anni successivi ho condotto una serie di indagini per capire la meccanica della vicenda, e mi sono convinto che Moretti non è responsabile di colpe più gravi di quelle da addebitare a una certa sbadataggine e smemoratezza… Il messaggio [la “soffiata”, ndr] arriva a Moretti tra giovedì e venerdì. Ma lui non ritiene di agire subito perché sa che io e Franceschini stiamo lavorando [in una base] di Parma e che da quel posto non mi sarei mosso fino a sabato notte o domenica mattina.
Pensa dunque di avvertirmi nella giornata di sabato… Tenta di farlo ma non ci riesce. Arriva a Parma sabato pomeriggio, quando noi eravamo già partiti. Infatti io, che dovevo essere a Pinerolo domenica mattina, non avevo voglia di fare tutta una tirata in macchina e avevo preferito tornarmene a Torino nel pomeriggio di sabato. Da lì sarebbe stato più agevole raggiungere il luogo dell’appuntamento la mattina seguente. E avevo chiesto a Franceschini di accompagnarmi».
A commento della vicenda, Franceschini scriverà:
«Non capii il comportamento di Mario [Moretti], sapevo che, al di là della sicurezza che palesava, era capace di perdersi in un bicchier d’acqua. Ma quella volta aveva fatto esattamente il contrario di quello che avrebbe dovuto. Invece che girare avanti e indietro per mezza Italia, come aveva raccontato, avrebbe potuto, semplicemente, attenderci sulla strada che portava al luogo dell’appuntamento (conosceva il percorso che avremmo seguito e anche la macchina che avremmo usato) per avvisarci del pericolo che stavamo per correre. Mario lo incontrai sette anni dopo… nel carcere di Cuneo, e gli chiesi subito conto di quell’8 settembre 1974: “Perché non ci avvisasti che stavano per arrestarci?”.
Lui mi guardò stupito, come se non si aspettasse quella domanda: “Ma come vuoi che faccia a ricordarmi di cosa successe sette anni fa? Tu ti ricordi tutto perché quel giorno ti beccarono”. Avrei voluto picchiarlo».
In sede di Commissione parlamentare stragi, molti anni dopo, sia il presidente Giovanni Pellegrino, sia Silvano Girotto, esprimeranno incredulità nel constatare la scarsa fantasia del capo brigatista che gestirà il sequestro di Moro.
Sarebbe bastata una telefonata anonima per dire che alla stazione di Pinerolo c’era una bomba, oppure bastava incendiare un cassonetto di spazzatura nella piazza, e la zona si sarebbe riempita di forze dell’ordine: Curcio, abituato a stare all’erta, avrebbe facilmente schivato la trappola.
Ma chi aveva fatto la telefonata a casa Levati per avvertire le BR che a Pinerolo c’era la trappola?
«Non lo so», dirà Moretti, «è l’unico mistero di tutta la storia delle BR che né io né altri ci sappiamo spiegare».
In realtà di “misteri” la vicenda di Pinerolo ne assomma vari altri. E il solo fatto certo è che l’Arma dei carabinieri eviterà di fare un’inchiesta per scoprire chi avrebbe voluto impedire l’arresto di Curcio. Informato da Levati della telefonata, Girotto ne parla col capitano dei carabinieri Gustavo Pignero, il quale si dice stupito in quanto i carabinieri che hanno proceduto all’arresto di Curcio e Franceschini sono stati informati dell’obiettivo della operazione solo poche ore prima: secondo Girotto, «lo sapevano lui, il generale Dalla Chiesa e qualcuno al ministero dell’interno», e il capitano «disse che poi avrebbe verificato, ma con mio stupore, nell’incontro seguente con il capitano, quando ripresi l’argomento (perché mi aspettavo che fosse diventato un argomento di primo piano, da chiarire), gli chiesi se stavano indagando per quella fuga di notizie, perché era una cosa grave. Ricordo che ho ricevuto una risposta vaga, ha lasciato cadere il discorso, non ha voluto approfondire l’argomento, mi ha detto che stavano vedendo».
Franceschini si dirà convinto, «pur senza averne elementi di prova», che la “soffiata” arrivasse dal Mossad: «Solo gli israeliani [erano] in ottimi rapporti con carabinieri e servizi segreti e, come avevano dimostrato offrendoci armi, per nulla ostili all’attività delle BR».
Secondo il magistrato Luigi Moschella, «c’era qualcuno in ambiente qualificato [il Viminale, ndr] che aveva interesse a che le scorrerie delle BR continuassero e che cercò quindi di evitare l’arresto di Curcio… Possiam credere che le BR avessero un informatore all’Ufficio affari riservati»
Fatto sta che a Pinerolo la mattina di domenica 8 settembre Curcio e Franceschini si incontrano con “Frate mitra”. Girotto (che è in contatto-radio con i carabinieri) dice ai due capi brigatisti di essere arrivato anche lui in macchina, e di doverla però riportare subito a Torino perché se l’è fatta prestare; così concordano di vedersi un’ora dopo in città, e si separano – è l’espediente deciso dai carabinieri per procedere all’arresto di Curcio senza “bruciare” l’informatore.
I due capi delle Br vengono arrestati pochi minuti dopo, mentre con la loro auto sono fermi a un passaggio a livello chiuso.
Sempre allo scopo di non “bruciare” l’infiltrato Girotto, i carabinieri del Nucleo speciale del generale Dalla Chiesa inviano alla magistratura torinese un primo rapporto sull’operazione, attribuendone l’origine al fatto che un brigadiere «in servizio nell’abitato di Pinerolo, si accorgeva della presenza di un individuo che… presentava forte somiglianza con [il brigatista ricercato] Franceschini».
A tutta prima Girotto è ancora “coperto”, tanto è vero che, dopo l’arresto di Curcio e Franceschini, si incontra un’altra volta con Enrico Levati. Ma è solo questione di giorni.
Resterà senza risposta un altro interrogativo cruciale: perché i carabinieri di Dalla Chiesa hanno di fatto concluso l’infiltrazione di Girotto nelle Br l’8 settembre, dopo soli tre incontri? Se fosse proseguita, l’operazione avrebbe potuto essere molto più efficace, sarebbe penetrata in profondità e avrebbe permesso ai carabinieri di scoprire di più e meglio l’articolazione delle BR e l’identità di molti altri brigatisti.
Non verrà mai accertato se si sia trattato di “un errore” di Dalla Chiesa, o se invece il generale abbia dovuto eseguire ordini superiori: del comandante della divisione Pastrengo generale Giovanbattista Palumbo, o del comandante generale dell’Arma Enrico Mino (entrambi risulteranno poi affiliati alla Loggia massonica segreta P2).
Un’altra ipotesi è che lo scopo del blitz non fosse solo l’arresto dei due capi brigatisti, ma anche la necessità di recuperare le carte dei Crd di Sogno che Curcio e Franceschini, prima di partire per Pinerolo, avevano riposto nel portabagagli della loro automobile.
Racconterà Curcio:
«Avevamo compiuto un’incursione negli uffici milanesi di Edgardo Sogno impadronendoci di centinaia di lettere e elenchi di nomi di politici, diplomatici, militari, magistrati, ufficiali di polizia e dei carabinieri: insomma tutta la rete delle adesioni al cosiddetto “golpe bianco” preparato dall’ex partigiano liberale con l’appoggio degli americani. Giudicavamo quel materiale esplosivo e lo volevamo raccogliere in un documento da rendere pubblico.
Purtroppo avevamo tutto il malloppo con noi al momento dell’arresto e così anche quella documentazione preziosa finì in mano ai carabinieri. Qualche anno dopo, al processo di Torino, chiesi al presidente Barbaro di rendere noto il contenuto del fascicolo che [era stato trovato] nella mia macchina quando mi arrestarono, e lui rispose imbarazzato: “Non si trova più… Qualcuno deve averlo trafugato dagli archivi giudiziari”. E la cosa finì lì. Sarebbe stato interessante invece sapere qualcosa di più su quella sparizione»
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