Un tatuaggio è sofferenza
Tatuarsi è sangue è sofferenza. Se volete farvene uno dovete rendervene conto. Non è una cosa con l’henné, una pennellata senza sforzo che vi rende più fighi d’estate. E non passa dopo tre mesi. Non potete liberarvene, se non con un’operazione. Altro sangue e altra sofferenza. C’è una possibilità che possa venire fatto solo per ragioni estetiche. Ma dovete esserne davvero convinti. Perché è per sempre. E in genere anche il quadro migliore stanca a guardarlo ogni giorno per anni. Anche se è Golconda di Magritte. O la Monna Lisa di Leonardo.
Sono sdraiato sul lettino e sento l’ago che mi incide la carne. E se mi fermo un attimo a pensarci è una cosa senza senso. E’ come pagare per farsi tagliare. Solo che non è un pazzo maniaco assassino, ma un artista con un ago da macchinetta per tatuaggi in mano. E allora sto fermo immobile e mi gusto il dolore. Il ronzio della macchinetta. L’ago che scava. L’inchiostro che mi viene iniettato sotto pelle e che non mi lascerà mai più. Ne sento ogni millimetro. Ogni piccolo movimento. Ogni secondo è dolore. Dolore e soddisfazione. Per questo credo debba avere un senso. Almeno per se stessi. Per quelle ore di dolore e sofferenza. Per il sangue che perdo. Una giustificazione da darsi quando penso “Perchè cazzo lo sto facendo?!?!”, che di solito è la domanda che ci si pone dopo 30-40 secondi dall’inizio.
Dopo ore di tormento la pelle è infiammata. Brucia anche nelle zone cirostanti. Come una scottatura. E ancora non è finito. E’ l’ago che incide e inietta inchiostro indelebile, a pause alterne. Ronzio, incisione, inchiostro, silenzio. Ronzio, incisione, inchiostro, silenzio. Ronzio, incisione, inchiostro, silenzio. Per ore. E ogni volta la pelle è sempre più dolorante. Più provata. E lo sono anche io, perché il dolore lascia traccia dentro se stessi.
Passano le ore e poi all’improvviso è finito. Mi alzo, comincia il sangue. Cola dai mille tagli e buchi della mia pelle. Si mescola all’inchiostro. Sangue e colore. Me lo coprono, ci spalmano crema che dovrebbe proteggermi o sollevarmi dal bruciore. E un pò forse funziona. Oppure è solo che il ricordo della sofferenza comincia già ad affievolirsi. Di solito nessuno ricorda il tipo di dolore. Si ricorda la quantità, di dolore, di tempo. Il soffitto dello studio del tatuatore. Il disegno del pavimento. Le macchie di colore sul fondo del lettino, sotto la pellicola protettiva e la carta usa e getta.
E, se non lo si fa per motivi estetici, si ricorda il perché lo si è fatto. Il motivo. Il senso. Tutto il dolore finalizzato al senso. Come se un concetto mi fosse stato inciso nella memoria con quell’ago che va su e giù.
Come se ogni volta da qui alla mia morte che mi guardo allo specchio ricordassi. Quel momento. Quella sofferenza. Quel concetto. Quel simbolo. Quella svolta. Quella scelta. Un tatuaggio è sofferenza. Un tatuaggio è memoria. E ricordare è sempre sofferenza.
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