19 Aprile 1978
A Roma le Brigate Rosse assaltano la caserma Talamo dei carabinieri.
L’agguato prevedeva il lancio di tre bombe artigianali sul muro dei locali adibiti al parcheggio dei mezzi pesanti dei carabinieri. Contemporaneamente i brigatisti avrebbero colpito l’edificio a colpi di mitra.
Ricorda Adriana Faranda:
«Oltre a me, nel commando c’erano Valerio, Franco Piccioni, Varo Loiacono e Renato Arreni. Ci incontrammo in una piazzetta dell’incrocio tra la Via Olimpica e la Via Salaria. Uno snodo delicato, con una strada di defilamento non molto trafficata, ma parecchio pericolosa. Cominciò male: qualcuno arrivò in ritardo, qualcun’altro aveva dimenticato i guanti, un altro ancora non aveva indossi i baffi che avrebbe dovuto avere. Insomma la tensione si tagliava a fette. […] A Piccioni era stato affidato il compito di lanciare le tre bombe. Lo fece, ma una non esplose. Io avrei dovuto sparare sull’edificio subito dopo Valerio. Ma il suo via non arrivava. Mi girai verso di lui, interdetta. Compresi che il suo mitra non funzionava, poiché cercava di sbloccarlo sbattendone il calcio contro il muro. Allora decisi di anticiparlo e di aprire io il fuoco di copertura, finché anche lui non riuscì a sparare. […] Fuggimmo. In ordine sparso arrivammo alla macchina che ci aspettava, senza rispettare le posizioni previste. Infine riuscimmo comunque a montare su tutti. Avevamo progettato di coprirci la fuga spargendo sul terreno olio e chiodi a quattro punte per evitare che qualcuno ci potesse inseguire. L’incarico lo aveva Piccioni, ma se ne dimenticò. E pensò bene di rimediare quando eravamo già tutti a bordo. Lanciò i chiodi dal finestrino, proprio sotto le nostre ruote. E naturalmente… fummo noi i primi a bucare. Arreni, che era al volante, cominciò a sbraitare. Allora Piccioni, per riuscire a gettare la bottiglia d’olio e gli ultimi chiodi senza provocare ulteriori disastri, aprì lo sportello anteriore di destra, proprio mentre a tutta velocità percorrevamo una curva, e gli cadde fuori la pistola. Arreni non si fermò e Piccioni perse la sua arma. La scampammo per puro miracolo. […] Il giorno successivo, non ci eravamo ancora ripresi da quella disfatta, leggiamo sui giornali che alla caserma Talamo dormiva spesso in tutta segretezza il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Grossi titoloni inneggiavano alla nostra potenza militare e ipotizzavano la presenza della solita “talpa” per spiegare come potevamo essere entrati in possesso della riservatissima informazione. Trasecoliamo, soprattutto ripensando a com’era andata nella realtà. Noi quella caserma l’avevamo scelta solo perché custodiva i mezzi pesanti dei carabinieri. E perché era considerata un simbolo rappresentativo delle forze dell’ordine. […] Ricordo perfettamente come andò: eravamo in Ufficio e avevamo già preparato il volantino con la rivendicazione. Ovviamente lo buttammo nel cestino e ne preparammo un altro. Aggiornato con le rivelazioni dei giornali. Non potevamo certo perdere l’occasione di valorizzare la nostra azione. Sebbene per caso, anche la nostra immagine – quanto a potere di informazione e di penetrazione – aveva guadagnato parecchio terreno».
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